contributo di Vania Chiurlotto al Seminario di Studi

SAPERE DELLE DONNE E TRASMISSIONE – CENTRI E RIVISTE

Lecce,13 febbraio 1996

 

parlare da “DWF donnawomanfemme”

Due, tre volte l’anno mi capita di fare quello che io chiamo “lavoro postale”, vale a dire di suddividere per città e regione le buste per la spedizione della rivista in abbonamento. L’ultima volta che mi è capitato di farlo sapevo già di questo convegno e ci stavo appunto pensando. Ho capito allora il motivo del segreto piacere – segreto a me stessa – che mi aveva fatto accettare di buon grado questo lavoro in sé molto meccanico. Così meccanico che ci sono appunto macchine progettate per farlo leggendo il codice postale. Io invece non leggo il codice, ma proprio i nomi e gli indirizzi, e il piacere mi viene appunto dal vedere scorrere sotto i miei occhi, in diverse centinaia di nomi, l’intera geografia e la storia di “DFW”. Nel senso che io posso ritrovare in quei nomi – non in tutti, naturalmente e per fortuna – il segno dei rapporti che hanno generato conseguenze. Così potrei dire quali abbonamenti risalgono a coloro che nel 1975 fondarono la rivista (e segnatamente ad Annarita Buttafuoco per la sua attenzione specifica e preziosa alle biblioteche); quali alle donne che nel tempo fecero parte delle diverse redazioni; quali sono dovuti a donne che non solo si abbonano ma che fanno abbonare il centro donna del loro paese, o il dipartimento universitario nel quale lavorano; quali agli altri luoghi  politici o professionali che ciascuna di noi frequenta; quali all’attività del  nostro “Centro studi donnawomanfemme” e a “Rete Lilith; quali alla rubrica Quarta di copertina che offre un particolare servizio alle biblioteche…Ci sono poi molte di cui non so, perché sono lettrici che hanno trovato la rivista in una libreria e che decidono di abbonarsi: in questo caso è il prodotto stesso che stabilisce rapporto e continuità.

Scorrono sotto i miei occhi – da qui il segreto piacere – le immagini di molte donne che avevano e hanno diverse concezioni e pratiche, diversi modi di esprimere la loro passione politica: un tessuto che mi precede, che mi esime dall’onere di dover fondare una tradizione politica di donne perché altre l’hanno fatto per me dandomi la possibilità di continuarla trasformandola. E ‘ lo stesso motivo per cui mi trovo a mio agio nell’Udi. Un tessuto che mi rimanda all’emozione del bel manifesto pensato per questo convegno da Pina Nuzzo e Rossella Lezzi, con le figure significative che si stagliano su uno sfondo di onde, onde di sabbia, ma anche nervature viventi, leggere e continue.

Il primo sapere che ho acquisito è dunque questo: è la vostra chiamata che mi fa guardare quello che faccio, che mi dice il senso di un lavoro apparentemente meccanico, privo di intelligenza.

Così come è il vostro desiderio di ascolto che mi dà parola. Non in assoluto: che mi dà parola qui. Non qualunque chiamata: rileggo davanti a voi una storia perché me lo domandano alcune donne che hanno una storia, con le quali ho una storia politica riconoscibile che mi dà accesso ad altre, alcune donne che hanno un progetto e che si sono per prime esposte su quel progetto, dando conto – come ci dicono gli scritti contenuti nella cartella – della propria storia. Non sono qui dunque per parlare né “alle mie amiche” di Lecce, né genericamente “alle donne di Lecce”: siamo qui tutte donne che abbiamo un pensiero su noi stesse e una storia politica. Si intraprende un progetto mostrando uno spessore nominabile di rapporti, di gesti, di giudizi politici. Insisto su questo, sul fatto che abbiamo già fondato, perché so l’opportunità che può costituire per tutte l’esistenza di una tradizione: naturalmente sta alla responsabilità politica di chi opera qui di fare in modo che l’esistenza di una storia non si trasformi per altre in sentimento di esclusione ma, al contrario, in possibilità di accesso alla politica delle donne.

Facendo quel lavoro meccanico di cui vi dicevo, io interpreto “DWF” nel suo patrimonio (da padre, non uso a caso questo vocabolo) di lettrici. Per la nostra commercialista è una voce di bilancio. Il suo non è uno sguardo impolitico. Lei, nella sua competenza, mi obbliga a vedere quanto e come sto nell’ordine sociale: adempimenti, editoria, economia, mondo commerciale…Come dire che se vogliamo libertà e titolarità del nostro pensiero dobbiamo occuparci della struttura d’impresa e del prodotto necessario a farlo conoscere.

Non ci abbiamo pensato subito, ci siamo arrivate e l’abbiamo spiegato in un numero di “DWF” intitolato Pesi e misure. Abbiamo imparato a dare appunto misura al nostro desiderio politico, a governarlo, a dargli un luogo; abbiamo interpretato quello che dall’ordine sociale, dall’ordine del padre, ci veniva come dato – “le leggi economiche” – nel suo senso politico, non come un ostacolo al lusso del nostro pensiero.

Io interpreto non sta nel registro dell’arbitrarietà, ma del simbolico. È attribuzione di senso a scelte materiali che altre donne (producendo la rivista, leggendola, facendola conoscere) hanno liberamente fatto nel tempo. È attribuzione di valore a spostamenti avvenuti nei fatti: di investimenti, di pensiero, di energie, di soldi, di tempo, dall’unico, dal neutro, ad un pensiero che concepisce l’appartenenza al genere come un valore e non come un destino.

La presa di parola e la capacità di ascolto attengono entrambe alla responsabilità politica.

È da questo esercizio che a “DWF” abbiamo ri-cominciato, nel 1986. Ci sentivamo tutte troppo strette nelle appartenenze di gruppo, di associazione, che pure erano state la nostra storia e abbiamo prodotto una riflessione partendo da Mi piace/non mi piace (primo titolo della nuova serie) come categoria di una soggettività che si mette in gioco e giudica, al di là del già dato per il nostro sesso che si declina piuttosto sul devo/non devo, posso/non posso, mi deve piacere/non mi deve piacere. Da lì abbiamo ripercorso, numero per numero, i tratti fondamentali in cui si configura la nostra passione politica come necessità. Basta scorrere i titoli: Progetti, progettualità; Biografie; Appartenenza; Responsabilità politica; Forme della politica; Il negoziato…un andare a fondo su singoli concetti, per rimettere insieme in primo luogo fra di noi della redazione una lingua comune. Letteralmente: nei primi tempi io non capivo nulla di quel che diceva la nostra Elena Gentili. Per esempio: l’appartenenza al genere per sé è muta, è un dato (originario quanto al sesso, culturale quanto al genere) ma il sentimento dell’appartenenza come valore fonda relazioni significative tra donne, costruisce consapevolezza di appartenersi e di appartenere al genere politico femminile. Tale consapevolezza implica la responsabilità politica di porre ovunque in essere le condizioni perché nessuna si senta esclusa a priori dal genere politico femminile.

La nostra riflessione evidentemente non avveniva nel vuoto, ma nel contesto delle nostre vite individuali, dei nostri rapporti interni, del dibattito politico fra donne fortemente segnato dal pensiero e dalla pratica della Libreria delle donne di Milano, dai fatti del mondo e dai saperi che, in tutto il mondo, altre donne andavano e vanno elaborando. Argomentazioni, le nostre, che hanno avuto corso, parole e concetti che ritroviamo in scritti e discorsi di altri luoghi, che hanno trovato risonanza in altre donne perché ne interpretavano le esperienze, che hanno fatto lingua comune.

C’era un andare in profondità, in quell’analisi, ma anche un limite. Come se dovessimo articolare, passare dalla parola alla frase. È una serie che si conclude nel dicembre del ’91 con il numero Prova d’ascolto, quando chiamammo altre donne a discutere, perché ci sembrava che si fossero create nuove e troppo schematiche appartenenze di gruppo, divisioni anche nominalistiche fra chi si occupava “del simbolico” e chi lavorava sui “diritti di cittadinanza”. Dopo di allora passammo “dalla parola alla frase”. E la prima frase fu Vedere l’ostacolo. Se mi vivo come oppressa, non vedo che oppressori; se mi vivo come soggetto, le medesime situazioni – che possono essere molto pesanti – mi appaiono come irte di ostacoli ma non come impossibilità di significarmi in quanto soggetto. Cambia l’atteggiamento verso le cose del mondo, verso noi stesse, cambiano le strategie e il senso dei rapporti politici. Tutti i titoli della serie più recente (Ripensare gli eventi, Riconoscersi nei progetti, Storie di lavoro, Una questione di governo, Variabile corpo, Pechino e dintorni, Il sapore del conflitto, Geografia dei segni) comportano una lettura degli avvenimenti che chiamiamo governo dell’interpretazione. Intendiamo con ciò la capacità, e in ogni caso lo sforzo, di ragionare su ciò che accade esponendoci ogni volta in un giudizio. Sia che si tratti di avvenimenti che si producono nel mondo e a cui noi attribuiamo un senso vicino all’esperienza femminile, sia che si tratti di eventi sessuati, cioè di accadimenti prodotti da donne che spostano per tutti la percezione delle cose ma di cui si tende a sottacere l’origine femminile. Nell’operare questo taglio interpretativo, nel fare testo siamo indotte a ridefinire ogni volta che cos’è politica.

Oggi. Due mesi fa abbiamo fatto uno spostamento che può banalmente essere letto come un trasloco. La Libreria delle donne “Al tempo ritrovato”, la redazione di “DWF” e la Cooperativa Utopia che la edita, il Centro studi donnawomanfemme con la sua Biblioteca specializzata e collegata alla rete informatica Lilith di cui vi parlerà Annalisa Diaz, si sono trasferite in un grande spazio comune a Trastevere, in via dei Fienaroli 31/32. Non si tratta di un banale trasloco, perché gli attribuiamo un senso diverso: vogliamo essere presenti nella città, nell’ordine sociale, con una struttura anomala rispetto alle leggi di mercato. Normalmente un’impresa commerciale com’è appunto una libreria non convive con una biblioteca che è un servizio gratuito (infatti siamo l’unico esempio in Italia e probabilmente in Europa): in questo caso invece non solo non se ne sente minacciata, ma al contrario la vive come una naturale estensione della propria progettualità politica. L’intenzione comune è di moltiplicare gli accessi al sapere e alla politica delle donne, di dare fluidità non solo agli spazi e alla loro destinazione ma anche ai rapporti.

Tutto questo esige una grande sapienza di relazioni fra noi, una misura da trovare fra la tutela delle specifiche storie e caratteristiche, e il rischio comune che stiamo affrontando. Questo mi riporta alla richiesta più intrigante che fa a noi Pina Nuzzo nel suo testo. “Nella mia curiosità – scrive Nuzzo – c’è a volte un’aspettativa: che queste donne esprimano a loro volta una curiosità e che ciò le induca a inventare delle aperture che non siano solo ‘la lettera’ e nemmeno ‘l’articolo’, perché le mie parole fuori da un contesto -fuori da un corpo – non dicono niente del mio lavoro, cioè della politica che faccio”. Avvertiamo anche noi in “DWF” questa esigenza, e stiamo appunto ponendoci il problema di quali forme inventare per darle risposta. Un modo, per esempio, può essere quello di fare periodicamente delle “redazioni aperte” in cui sia possibile ragionare con alcune altre fin da quell’iniziale e apparentemente casuale e disordinato comunicarci esperienze di vita e contestuali riflessioni politiche, che normalmente dà il via al concepimento di un numero della nostra rivista.

Non mi nascondo tuttavia una consapevolezza: una rivista è un luogo di potere, nel senso che sceglie a chi e a che cosa dare parola. Occorre, anche qui, trovare una misura tra quella curiosità e la tutela del luogo di enunciazione che altre donne hanno fondato e di cui hanno cura. Credo che nulla di quello che ho raccontato e di cui ho fatto problema sia estraneo al progetto di un Centro a cui intendete dar vita a Lecce; confido e vi auguro di continuare a saper trovare la sapienza di rapporti e le mediazioni necessarie per raggiungere il vostro scopo.

 

testo dagli atti a cura di Marisa Forcina e Pina Nuzzo, edizioni Milella 1997                                                 immagine Archivio Centrale dell’UDI